Le barriere non tariffarie: un ospite scomodo al commercio internazionale
Di Giacomo Vincenti
Fra le numerose barriere occulte al commercio internazionale figurano, curiosamente, quelle relative agli “oneri non tariffari”, conosciute anche come “barriere non tariffarie e non fiscali”. Nello specifico, si tratta di ostacoli dall’effetto equivalente al dazio che vengono adottati unilateralmente come strumento introdotto a protezione del mercato interno del paese che ne predispone l’assolvimento.
Gli ostacoli al commercio: le barriere tariffarie e non tariffarie
L’obbligatorietà delle norme WTO per uno scambio equo e senza barriere
Il contesto: l’armonizzazione delle norme doganali a livello internazionale
Con la fine del secondo conflitto mondiale e l’inaugurazione della conferenza di Bretton Woods nel luglio del 1944, il mondo conobbe un assaggio del processo di apertura dei mercati globali che andò man mano a delinearsi e prendere forma per tutto il resto del XX° secolo. Il principio di non discriminazione fra stati, l’abbattimento delle restrizioni commerciali e la riduzione (se non l’abolizione totale) dei dazi doganali fra le nazioni, sono sempre stati il perno centrale attorno al quale ruotavano, e ruotano tutt’ora, gli sforzi della World trade Organization, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Con il tempo, il WTO ha dato vita ad un nuovo corpus normativo, un vero e proprio insieme di leggi e regolamenti relativi al diritto doganale internazionale al quale tutti gli stati membri sono tenuti a rifarsi scrupolosamente.
Per spiegarla con altre parole, la sovranità dispotica in materia di politica commerciale e doganale fra gli stati membri è stata via via limitata dall’obbligatorietà di una tariffa doganale concordata: se prima le nazioni avevano facoltà di modificare i dazi doganali a proprio piacimento, differenziandoli in base al paese di provenienza della merce, ora gli stessi membri del WTO sono tenuti a rispettare la parità di trattamento negli scambi commerciali, applicando la regola della “nazione più favorita” e del cosiddetto trattamento nazionale.
Facendo un esempio pratico, se in passato la Cina aveva fissato un dazio del 12% sulle importazioni di carne di maiale statunitense, con l’introduzione del principio della parità di trattamento è stata costretta ad abbassarlo all’8%, come da aliquota per le carni russe.
Discorso diverso, ma simile, per la regola del trattamento nazionale. Tale disposizione prevede che, una volta assolti i dazi doganali, il prodotto importato debba essere considerato alla stregua dei prodotti nazionali interni, non solo in riferimento alle imposte nazionali (IVA), ma anche per ogni altro onere di sorta. In altri termini, i beni stranieri importati in un paese membro del WTO non possono essere oggetto di imposizioni fiscali smodate rispetto a quelle previste per le merci nazionali simili.
Potrebbe apparire paradossale, ma nell’era della globalizzazione dei mercati e della comunicazione digitale, dove ogni connessione internazionale a qualsiasi livello è resa più semplice e più immediata, diversi stati rispondono ancora con una sorta di “controtendenza protezionistica”, sbarrando lei porte del proprio mercato a prodotti e servizi stranieri.
Ciò avviene tendenzialmente a tutela della produzione nazionale interna e per il miglioramento della bilancia dei pagamenti, decisione questa che nasce da un diverso indirizzo di politica economica dei paesi che l’adottano: basti pensare alla Cina di Xi Jinping negli ultimi anni o al protezionismo americano dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017.
Gli ostacoli al commercio: le barriere tariffarie e non tariffarie
I piani protezionistici delle nazioni in controtendenza risultano possibili proprio grazie all’introduzione delle barriere commerciali, grossomodo divise in due macrocategorie:
- Le barriere tariffarie
- Le barriere non tariffarie
Le barriere tariffarie sono tutti quegli oneri di carattere fiscale che gravano sulle spalle dell’operatore economico interessato all’immissione di un determinato prodotto o servizio all’interno del paese che ne richiede l’assoluzione. Si tratta, generalmente, di tasse con effetto equivalente a un semplice dazio, ma adottate unilateralmente, quasi sempre in maniera occulta, per creare un ostacolo economico allo scambio internazionale.
Esse comprendono tributi di varia natura come l’IVA; le accise ed altre tipologie di tasse.
Le barriere non tariffarie sono, invece, di più difficile individuazione, ma costituiscono anch’esse un carico fiscale (indiretto) per l’operatore economico. Più in generale, potremmo dire che tale fattispecie di barriere si riferiscono a tutti quegli adempimenti richiesti al momento dell’importazione di un bene o servizio, differenziati a seconda che si tratti di restrizioni quantitative o norme tecniche e standard di prodotto.
Tra di esse troviamo il contingentamento all’importazione di determinati prodotti esteri; le licenze all’importazione; varie misure sanitarie e fitosanitarie a tutela della salute e dell’ambiente; standard tecnici di produzione ed altre tipologie di barriere.
L’obbligatorietà delle norme WTO per uno scambio equo e senza barriere
Sebbene ciascun paese del WTO sia libero di perseguire i propri obiettivi nazionali e non riceva vincoli alcuni sulla scelta della propria politica fiscale interna, le misure messe in atto dai singoli governi non dovrebbero (almeno in linea teorica) far sorgere casi di discriminazione commerciale arbitraria o ingiustificata tra paesi membri, dove sussistano condizioni identiche. Nel caso in cui si proceda con l’adozione di tale politica protezionista, le disposizioni e la prassi messe in atto non devono, quindi, funzionare come pratica “truffaldina”, tesa alla restrizione dei traffici internazionali e alla limitazione del commercio fra i paesi.
Molto spesso però, la linea dura dettata dal WTO rimane lettura morta. Malgrado la disciplina sia più che esaustiva, numerose sono state le controversie avviate da paesi esportatori per denunciare trattamenti discriminatori ricevuti a danno dei loro prodotti, da parte del paese importatore.
Per evitare che ciò accada, nel caso in cui i tentativi di scambi commerciali di un paese vadano ad infrangersi contro il muro protezionistico della nazione ricevente, imbottito di misure a difesa del suo mercato interno, questi avrà la possibilità di “denunciare” la pratica scorretta all’Organo di soluzione delle controversie (DSB). Se le consultazioni non saranno in grado di risolvere la questione in prima battuta, il DSB avrà facoltà di costituire un “Panel”, vero e proprio organo arbitrale avente potestà decisionale una volta esaminato il fascicolo d’indagine.
Distillati giapponesi contro liquori occidentali: le barriere tariffarie nipponiche contro USA e Canada
Fornendo un esempio pratico, il 21 giugno del 1995 fu proprio la Comunità Europea a bussare alle porte del DSB per denunciare ciò che riteneva, assieme a Stati Uniti e Canada, una mossa illegittima da parte delle autorità giapponesi.
Accadeva che, una volta importate in territorio nipponico, le bevande alcoliche occidentali venivano “discriminate” dal sistema di tassazione giapponese che applicava loro un’imposizione fiscale superiore rispetto ai liquori locali, come lo “shōchū”, 焼酎, delizioso distillato del posto originariamente ottenuto a partire dal grano o dalla canna da zucchero.
Le sentenze del Panel supportavano le denunce occidentali, riconoscendo al Giappone la violazione dell’Art. III:2 del GATT, con la conseguenza che gin, whisky, rum e altri liquori occidentali fossero soggetti ad una tassazione ben più alta dello shōchū nipponico, probabilmente al fine di proteggere la produzione del mercato nazionale.
Una specie di ritorno al passato, quando durante il periodo “Sakoku”, 鎖国, il mercato nipponico era volutamente chiuso agli stati esteri ed i prodotti occidentali come gli alcolici erano largamente boicottati.
Il caso appena analizzato ci dimostra come le succitate barriere commerciali non siano appannaggio dei soli paesi in via di sviluppo, ma anche di grandi potenze come quella giapponese. L’imposizione fiscale di natura discriminante sugli alcolici stranieri rientra nella fattispecie delle barriere tariffarie, poiché rappresenta un onere fiscale diretto attribuito all’operatore economico importatore del whisky.
In altri casi, il tentativo di uno scambio commerciale con un paese “protezionista” si infrange contro un doppio e spesso muro di cinta, uno sbarramento a protezione del mercato interno costituito da oneri tariffari e barriere non tariffarie: è il caso delle sigarette filippine, scoppiato nell’inverno del 2008 e risoltosi più di 10 anni dopo, nel 2022.
Andiamo ad analizzarlo nel dettaglio.
La disputa commerciale fra Filippine e Tailandia: barriere non tariffarie contro l’import di sigarette estere
È il febbraio del 2008. Tra le strade affollate di turisti nel pieno centro di Bangkok, un commerciante del posto cerca un attimo di pausa dalla sua frenetica attività, accendendosi una sigaretta appena fuori l’uscita del suo locale. Probabilmente non sa che esattamente in quel momento il suo paese è stato richiamato al rispetto degli articoli del GATT dalle Filippine, che lamentavano il protrarsi di pratiche scorrette da parte delle autorità tailandesi proprio nei confronti del commercio di sigarette.
Le accuse mosse davanti al Dispute Settlement Body riguardavano le pratiche di valutazione del valore merci giunte alla dogana tailandese, l’imposizione di tasse e accise di vario genere, il regime IVA, il possesso di apposite licenze per la vendita al dettaglio e garanzie all’importazione: tutte misure gravanti sulle sigarette di provenienza filippina.
Ciò che appariva davanti agli occhi degli esportatori era proprio una doppia cinta di protezione, quel muro invalicabile formato da oneri, barriere non tariffarie e altre spese aggiuntive, di fronte ai quali gli operatori economici filippini dell’industria del tabacco avrebbero dovuto desistere dalla continuazione dei loro affari.
Così però non è stato, anzi. Le Filippine lamentarono il fatto che le dogane tailandesi fossero solite determinare la base imponibile per l’IVA sulle sigarette importate in modo tale che la stessa fosse maggiore di quella gravante sulle sigarette nazionali: una disparità di trattamento che andava a ledere l’Articolo III, parte 2 del Gatt 1994. Ulteriore e conseguente violazione risultava dal fatto che le stesse merci filippine fossero soggette a un’imposta sul valore aggiunto superiore a quella applicata ai prodotti tailandesi nazionali simili.
Stando a quanto dichiarato dall’accusa, il carico fiscale gravante sulle sigarette estere si tramutava successivamente in ulteriori adempimenti amministrativi per quegli stessi rivenditori, le succitate “barriere non tariffarie”, lungaggini burocratiche che tagliavano le gambe a chiunque avesse voluto proseguire in questo business.
Sotto questo punto di vista, prima il Panel e poi il DSB confermarono la conclusione secondo cui la Thailandia agì in modo non conforme a quanto disposto dal GATT, colpevole del fatto di assoggettare le sigarette importate a un sistema tributario scorretto. La misura tailandese in questione consisteva nell’esenzione IVA per i rivenditori di sigarette nazionali e nell’imposizione della stessa ai rivenditori di sigarette importate, nel momento in cui quest’ultime non avessero soddisfano le condizioni prescritte per ottenere i crediti d’imposta necessari per l’azzeramento dell’IVA. Il DSB ha concordato con il Panel sul fatto che questa misura incidesse sull’imposizione fiscale dei prodotti importati e dei prodotti nazionali simili, respingendo la difesa tailandese che classificava gli eventuali oneri che sarebbero derivati da questa mancanza come “adempimenti amministrativi”.
Proseguendo nel lavoro di reportistica delle numerose barriere non tariffarie tailandesi, le Filippine contestarono dinanzi alle autorità preposte anche il sistema del governo thailandese, denunciando che alcuni funzionari governativi facessero contemporaneamente parte del Consiglio di amministrazione della Thailand Tobacco Monopoly (TTM), un grosso produttore nazionale di sigarette di proprietà dello Stato. Secondo le Filippine, ciò sarebbe entrato in contrasto con gli obblighi previsti dall’Articolo X, parte 3(a) del GATT, di amministrare le questioni doganali in modo ragionevole e imparziale.
Secondo la parte lesa, la Thailandia pareva agire in modo non conforme allo stesso articolo X a causa dei presunti ritardi irragionevoli causati nel processo di revisione amministrativa per i ricorsi contro le determinazioni doganali.
Dopo le sentenze e le raccomandazioni del DSB, la Thailandia ha dichiarato di aver adottato una serie di misure per conformarsi a tali indicazioni, ma il faccia a faccia tra i due paesi è proseguito per anni. Le Filippine hanno continuato a contestare non solo alcune misure dichiarate dalla Thailandia per uniformarsi alle direttive, ma hanno mosso una serie di accuse penali presentate contro PM Thailandia nel gennaio 2016 dal Pubblico Ministero, secondo cui questa avrebbe sottodichiarato diversi valori doganali.
Passati quattordici lunghissimi anni passati ad addossare colpe e proteggersi dalle accuse, le due controparti si incontrarono in seno al WTO il 7 giugno del 2022, per firmare un accordo atto a risolvere l’annosa controversia sulle sigarette.
L’intesa raggiunta ha finalmente istituito un meccanismo consultivo bilaterale chiamato BCM (Bilateral Consultive Mechanism) a servizio delle due autorità, al fine di cooperare attivamente e aprire un canale di dialogo preferenziale, nella speranza che ciò contribuisca a migliorare la fiducia reciproca e massimizzi gli sforzi per raggiungere una soluzione definitiva.
Conclusione
I due casi appena enunciati ci dimostrano quanto variegate possano essere le tipologie di oneri “protettivi” adottate dai paesi, ma concorrono anche ad evidenziare quanto lunghi e logoranti dal punto di vista commerciale ed economico appaiano i tempi di attesa nel tentativo di trovare una risoluzione ai conflitti instaurati tra due nazioni. Ce lo confermano inoltre le querele ancora in piedi a livello internazionale, come quella tra Cina e Stati Uniti, ancora non risolta in tutto e per tutto.
Se da un lato oneri e barriere non tariffarie sembrino non voler cessare di esistere, sia per questioni geopolitiche, che di indirizzo economico, dall’altro il sistema di scambi commerciali potrà continuare a contare sulla vigilanza del WTO, sempre all’erta per la salvaguardia della corretta applicazione delle norme e presente nel caso di necessità alle risoluzioni di conflitti inerenti il commercio.
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